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Dei dorati red carpet percorsi dai Leoni vincitori si è già parlato ampiamente, e si tornerà a farlo quando tutti quei film passeranno in sala. Dal canto nostro proseguo con un’osservazione un po’ più trasversale sulla Mostra del Cinema di Venezia. Altri quattro titoli italiani, stavolta in ordine di uscita. Dal 5 settembre è in sala Taxi monamour dell’outsider Ciro De Caro. Con il precedente Giulia aveva intrapreso il suo percorso con la protagonista Rosa Palasciano, sbocciato con l’inaspettata candidatura ai David come Migliore attrice protagonista. Tornano a Venezia portando sotto al braccio la storia d’amicizia metropolitana tra due ragazze, una benestante e annoiata tra lavoretti e indecisioni, l’altra ucraina fuggita da un paese in guerra.

Con Yeva Sai, Palasciano, anche sceneggiatrice insieme allo stesso De Caro, forma una coppia di anime belle e un po’ stropicciate fluttuanti in una grande città. La loro è una piccola storia d’indeterminatezza invisibile eppure così emotivamente vivida, realistica sia nel linguaggio sempre più diretto e naturale dei pastiche di De Caro, sia nell’empatia che stimola sullo spettatore. C’è coraggio dagli autori perché a volte le avventure delle due giovani donne si fanno respingenti come certi lati scomodi della vita, ma ci sono resilienza, sostegno, condivisione, il tutto declinato in tante sfumature tutte femminili. Taxi monamour ha vinto il Premio del Pubblico alle Giornate degli Autori, è in sala da 4 settembre e sarà distribuito all’estero da True Colors, che si occuperà per i mercati internazionali anche del vibrante Familia di Francesco Costabile. E proprio per questo film, sempre al Lido, il protagonista Francesco Gheghi ha vinto il Premio Miglior Attore nella sezione Orizzonti più la quarta edizione del Premio RB Casting (il primo assegnato da soli casting director in un festival internazionale).

Il 26 settembre arriverà in sala Il tempo che ci vuole, di Francesca Comencini, presentato al Lido fuori concorso. Peccato non fosse in concorso perché aveva un bel potenziale. È il film che accade quando il cinema abbraccia i ricordi del pubblico e di chi lo fa, ma non solo. Concetto cardine “Prima la vita, poi il cinema”. Lo dice Luigi Comencini alla figlia Francesca, che negli anni Settanta ebbe problemi di eroina. I due vengono interpretati da Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano. Il primo ci restituisce un ritratto inedito di padre severo e amorevole del celebre regista che diresse tanta commedia all’italiana, titoli come Tutti a casa, Pane Amore e Fantasia, Lo scopone scientifico, L’ingorgo e Marcellino pane e vino. La seconda, una talentuosa millennial lanciata da Paola Cortellesi con il recente campione d’incassi C’è ancora domani, assume il ruolo delicato della regista quando era ragazza.
Si ritrae il decennio del 1970, da una parte l’infanzia di Francesca alla scuola francese di Roma, dall’altro la sua giovinezza ribelle travolta da quegli anni di manifestazioni, mutamenti sociali, lotte politiche e terrorismo. Ma c’è anche l’amarcord del set di Pinocchio. Film che addolcisce i ricordi infantili di tanto pubblico, dove una Francesca bambina faceva la comparsa vicino al papà, sotto gli occhi di Franco e Ciccio che erano il Gatto e la Volpe. E c’è il periodo a Parigi, dove Comencini portò la figlia adolescente per staccarla dalla sua dipendenza. Ci sono l’aspro scontro generazionale, la creatività, la rettitudine e l’umanità del regista-padre, la tenerezza e il bisogno d’affetto reciproco in questa autobiografia intrepida e positiva ai limiti della seduta psicanalitica.

Il 5 ottobre è invece la data di uscita di Bestiari, erbari, lapidari, chilometrico documentario fuori concorso di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. La coppia d’autori di Spina Mirabilis torna con un’opera formalmente enciclopedica sui tre regni della natura: animale, vegetale e minerale. Tre atti in 206 minuti. Partono dalla vita degli animali da un punto di vista museale, anatomico, diramandosi sullo studio delle piante con i ricordi di un ragazzo, un giovane studioso di botanica caduto durante la Prima Guerra Mondiale, e poi arrivano all’inanimato per eccellenza, per trovare un profondo senso della pietra come ricordo indelebile lavorato e forgiato dall’uomo ancor prima d’esser provocato. Utilizzano immagini a volte potenti, altre molto prolungate per la sala. La sfida delle 3 ore è più rivolta all’esercenza che allo spettatore in realtà. Un film di tale durata può ambire giusto a due repliche al giorno e non tre. Cioè meno biglietti e meno margine di guadagno. Quindi un rischio economico da questo punto di vista. E con un evento live dei registi in sala sfiorerebbe le 4 ore. Un patrimonio di tempo da richiedere al pubblico. Impresa per cinephile incalliti quindi, ma soprattutto per eroici ossi duri del cinema documentaristico.

Arriviamo infine al tanto decantato Iddu di Grassadonia e Piazza, in concorso alla Mostra ma ingiustamente criticato per le sue inesattezze storiche. In realtà gli autori sono chiari e intellettualmente onesti fin dalla lampante didascalia iniziale, di cui è molto importante l’ultima frase: ”La realtà è un punto di partenza, non una destinazione”. Guardano ai primi anni del 2000 i registi di Palermo, nel pieno della latitanza di Matteo Messina Denaro, quando intorno e attraverso le forze dell’ordine ronzavano ambigui informatori e i pizzini valevano come tessere di un puzzle impossibile. Condensano gli informatori nel personaggio di Toni Servillo, ex-preside, ex-politico locale, ex-detenuto faccendiere, ma ora solo un ominicchio in cerca di riscatto ma messo sotto pure dalla moglie Betty Pedrazzi. Il ritrovato contatto, tramite gli inquirenti, col boss dal grugno di Elio Germano gli ridarà speranza per un losco affare lasciato in sospeso.

La storia palleggia tra i due protagonisti, racconta certe reti sociali e neuronali della nostra Italietta, per questo gli autori utilizzano un’ironia tesa a demistificare certe mitologie mafiose nel loro racconto spesso grottesco. A volte si ride anche con Servillo, ma Germano fa pure alzare i peli sulle braccia con la sua impenetrabilità spietata e gli scorci quasi da serial killer sull’infanzia del suo Matteo. Ricorda a sprazzi il Sospettato di Volonté, ma fondamentali sono i ruoli femminili. Dalla parte di Servillo, una grande Pedrazzi e la poliziotta caparbia di Daniela Marra. Da quella di Germano ci sono Antonia Truppo, nei panni della sorella gelosa e vendicativa spacciatrice di pizzini e la governante segreta di Denaro, Barbora Bobulova. Iddu a Venezia ha vinto due premi collaterali: il Premio Carlo Lizzani al Miglior film italiano e il Premio Mimmo Rotella. E sarà al cinema dal 10 ottobre con il suo modo altrettanto collaterale di raccontare la mafia, con la stessa imprevedibilità che in fin dei conti i due autori utilizzano per ogni loro film.